martedì 27 marzo 2012

La canzone della donnaccia


Chi lo ha ascoltato per la prima volta ricorderà come gli pulsava lo stomaco;
una bomba di adrenalina che implode nel costato e sprigiona le sue scintille in tutto il corpo facendoti tremare anche le gambe e le corde vocali.
L’11 Gennaio del ’99 ero seduto chino su un tavolo di una villetta di una famiglia drasticamente borghese che cercavo di capire la matematica aiutato dalla figlia bionda, bella e intelligente, quasi dottoressa, della mater familia alla quale davo 10 mila lire per ogni ora passata a sbirciare la scollatura più che a  studiare.
Alla radio continuavano a passare le sue canzoni perché era appena morto.
Era diventato Santo.
Tornato a casa la notizia mi rimase in testa fino a cena poi come ogni lunedì
mangiai il mio pesto e guardai un film dimenticando quella notizia, ma non quel nome.
Passarono gli anni, circa sei, ero all’università e la docente di lingua inglese ci chiese di preparare un paper di analisi di un testo tradotto dall’inglese all’italiano.
Una mia cara amica scelse La Collina tratto dalla Antologia di Spoon River dell’americano Edgar Lee Masters.  Analizzammo il testo tradotto dalla Pivano e facemmo ascoltare in aula la canzone Dormono sulla collina.
L’inizio fece ammutolire tutti, quegli archi tetri che stridono sul cuore e
lo fanno andare più forte prima che Faber si chiede: Dove se n’è andato Elmer?
Questo è il mio inizio con lui e la sua arte all’età di 21 anni e tanta voglia di imparare a scrivere le emozioni.
Iniziai a scaricare tutto il possibile su questo artista dagli albori all’ultimo disco.
Ascoltarlo era una necessità, mi chiedevo come mai non lo avessi fatto prima.
Volevo recuperare il tempo perduto.
Passavo più tempo in casa con le cuffie che fuori, stampavo le parole e cantavo con lui cercando di imitarne la voce senza aver mai fumato una sigaretta. Prova ardua.
I testi erano brevi saggi sulle diverse sfumature della vita e della morte. Tra questi due concetti esiste il mondo.
De Andrè li mischiava e li intrecciava come le verghe di vimini che diventano una sedia mentre le sue parole erano filosofia che la mia testa assorbiva come spugna nell’acqua.
Ringrazio lui e la sua lirica che ha reso i miei giorni più densi dandomi l’idea che la testa vale più del braccio.

PS

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