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giovedì 24 maggio 2012
Silenzio e rottami
Ho sentito il rumore che può fare la morte.
Un rumore così non si può descrivere esattamente. Arriva, ti rimbalza dentro e non lo dimentichi più.
20 maggio, viale Marche ore 13:15. Mi affaccio dal balcone di G.
Steso a terra un motociclista immobile. Un Suv ormai irriconoscibile è fermo in mezzo alle rotaie del tram senza più la parte anteriore; la moto invece è volata poco più in là. Una donna, scende dall’auto e comincia a vagare per qualche metro, poi si siede sotto la pioggia con le mani in testa. Tutto intorno silenzio e rottami.
D. scende di corsa a vedere il ragazzo col casco. Fa la volontaria in ambulanza. Quando torna su, ci dice che il ragazzo respira ma è messo male. Comincio a sperare che ce la possa fare. Nel frattempo sono arrivate le ambulanze con i medici, che dopo pochi secondi cominciano il massaggio cardiaco. Brutto segno.
Dalla tv in sala intanto un telecronista urla per le azioni di un partita di calcio che aspettavo da mesi, ma che ora ha perso di significato. Inizio a provare vergogna per la birra che stavo bevendo e che ho ancora in mano. Cazzo, non sono al cinema, penso.
Passano venti minuti il ragazzo è ancora lì steso, ormai seminudo sotto una pioggia leggera ma che non vuole cessare, e i medici intorno a provarle tutte. Decido di rientrare dentro. Gli sguardi sono cupi. Cerchi di non pensarci: the show must go on, la vita va avanti. Alla fine riesco anche a gioire per una partita che finisce come avevamo sperato tutti. Ma dentro ho un nodo allo stomaco che cerco di sciogliere con qualche bicchiere di troppo. Macché. Il pensiero corre a quel ragazzo che sta lottando e a un padre e una madre che – chissà dove - non sanno ancora nulla.
Ore 17. Scendo per tornare a casa evitando accuratamente di guardare. Ma non c’è più nulla. Solo un nastro vicino alle rotaie che delimita la zona dell’incidente e un vigile urbano che sotto la pioggia dirige stancamente il solito traffico milanese.
Ma quel rumore ce l’ho ancora in testa, e continua a rimbombarmi dentro fino al giorno dopo, quando apro il giornale e leggo che in Viale Marche un motociclista, Giovanni B., 26 anni, è morto.
Il rumore svanisce. Dentro restano solo “silenzio e rottami” per un’altra vita volata via troppo presto.
IKE
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/05/21/scontro-con-auto-motociclista-morto.html
lunedì 21 maggio 2012
A, come casa
Ora vi chiederete cosa c’entro io, nato e cresciuto a Milano, col Toro. È quello che sto per raccontarvi.
“Che squadra tifi?”
“Il Torino”
“Come il Torino? Ma non sei di Milano?”
Quante volte ho dovuto sentire da bambino questa frase. Mi vergognavo e arrossivo perché ogni volta che rispondevo in quel modo si disegnava sul volto del mio interlocutore un’espressione non troppo lontana da quella che si potrebbe avere osservando un marziano.
Rimanevo, quindi, in silenzio, in attesa delle inevitabili prese per i fondelli provenienti indistintamente da coetanei e ultracentenari.Eppure, se ne avessi avuto la capacità, avrei voluto spiegare le mie ragioni. Dire una volte per tutte che io non avevo colpa, ma era il Toro che aveva scelto me, senza lasciarmi altra alternativa.
Era accaduto tutto all’età di 4 anni, nel 1984. Non ricordo il mese esatto, ma probabilmente non doveva far troppo freddo, dato che mia madre era tornata a casa con in mano un regalo per me: una maglietta a maniche corte “rossa”. Non proprio di colore rosso Magenta – come ti insegnano a dire a scuola – un rosso diverso, scuro che non avevo mai visto e che quindi non si addiceva ai miei gusti. (anche oggi ho difficoltà ad accettare le novità). Ero piccolo ma ero già un abitudinario convinto, che volete farci.
Inutili furono i tentativi di mia madre di farmela indossare. Non ne volevo sapere. Se la mettesse lei quella roba. Di certo non l’avevo scelta io.
Accadde allora qualcosa di straordinario, che soltanto dopo molti anni capisci che ha cambiato la tua vita o che l’ha condizionata per sempre in una determinata direzione. Non saprei dire cosa fu esattamente, e quindi non saprei neanche dare un nome a quella forza misteriosa che spinse mio padre (convinto milanista) ad accovacciarsi di fianco a me e dirmi con semplicità e dolcezza: “Ascolta, Saverio, la maglia di questo colore appartiene a una squadra che in passato è stata fortissima e ha vinto tanti scudetti”. E me la fece infilare.
Un terremoto del nono grado della scala Richter, provocato dall’esplosione di un vulcano. Questo deve essere successo dentro la mia testa di bambino. Vissi quel momento come una vestizione, come una missione da compiere. Da quel momento dovevo tenere il Torino, era stato deciso così e io non potevo farci nulla.
IKE
Forse non tutti sanno che il gruppo ska Statuto ha dedicato una canzone al Grande Torino, eccola:
http://www.youtube.com/watch?v=RtyzQ80t0yg
mercoledì 8 febbraio 2012
Shit happens
Avete presente la merda sulla neve? Credo non ci sia peggior sfregio alla bellezza della natura come quello. Cagare sulla neve è un po’ come cucire un quadro di Lucio Fontana. Non si può. Non si deve. La bellezza merita rispetto.
Il rispetto però deve essere reciproco. La neve sa essere infida, bastarda. Pestare la merda nascosta sotto la neve ad esempio la vivo personalmente come un tradimento. Ma come? Fino a un secondo prima, ero lì che ti ammiravo, decantavo le tue lodi, non avevo occhi che per te e adesso mi ritrovo a cercare l’unico filo d’erba rimasto insepolto, l’unico rametto striminzito che possa aiutarmi a levare tra gli interstizi delle mie scarpe una quantità smodata di merda . Sei solo una merda di neve.
Quella stessa neve che ti fa fare figure di merda, come scivolare e sfracellare al suolo davanti a cento persone. E tu, rialzandoti, fai finta di nulla, gridando a tutti “non mi sono fatto niente!”, mentre in realtà l’osso sacro si è spezzato in tanti frammenti che ci potresti comporre un mosaico.
Quella stessa neve che, ghiacciandosi, ti impedisce di frenare la tua auto (che hai comprato con tanti sacrifici appena 5 anni fa) proiettandola e accartocciandola contro quella che ti precede. E quindi cosa fai? Consegni l’auto a un carrozziere che qualche sera dopo ti chiama e placido ti fa conoscere il modico preventivo, facendoti lo spelling degli zeri. E tu non puoi che esclamare: “Merda!” e lui: “Càpita”.
IKE
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