giovedì 24 gennaio 2013

Istanbul’u seviyorum



Ho da poco ripreso la mia mania di acquisto compulsivo biglietti aerei e organizzazioni viaggi, vicini o lontani che siano. Complice il periodo di pianificazione ferie ho ritrovato la voglia di partire per qualche avventura, assieme a un diario di un mio viaggio a Istanbul.

Avevo mandato il racconto al sito del Corriere Viaggi. Ve lo ripropongo di seguito, un filo rivisitato: una brevissima raccolta di episodi e storie. Il racconto originale potete trovarlo qui, assieme a qualche foto che avevo scattato durante il viaggio.


La mia vacanza con Eliana a Istanbul comincia con il volo in stile anni ’90 della Turkish Airlines. Ma è solo quando ci fiondiamo dentro un taxi che ci facciamo un’idea di cosa vorrà dire trascorrere cinque giorni in una città che scoppia di vita: 12 milioni di abitanti chiassosi, instancabili, amichevoli, sorridenti, che non perdono occasione di dimostrarti quanto sono contenti ad averti come loro ospite.

Fenomenologia della corsa (in taxi)
Il viaggio in taxi è il paradigma di Istanbul. Il traffico è infernale, gli autisti di autobus, macchine e taxi si buttano senza regola: chi arriva primo vince. Mentre guidano parlano con i passeggeri, fanno gare tra di loro, si parlano da una macchina all’altra chiedendo indicazioni sulle strade meno trafficate –come se ne esistessero, guidano come dei pazzi scatenati. Il nostro taxista prima ci scambia per turche, poi scopre che Mehmet, il fidanzato della nostra amica turca con cui ci siamo appena incontrate, è un ingegnere e quindi inizia a supplicarlo di sistemargli la batteria del cellulare, infine si incazza con un’anziana mendicante che chiede l’elemosina al semaforo a cui siamo fermi, scocciato perché non sta bene che chieda la carità a delle turiste. Sali al volo sul taxi, viaggi, paghi e scendi altrettanto al volo. E tante grazie, teþekkür!

Wrong rosary
È domenica e io cerco una chiesa cattolica in cui partecipare alla messa. Troviamo per caso la chiesa dei SS. Pietro e Paolo, dove tra le altre cose hanno girato il film “Wrong rosary”. Il prete, italiano, ci accoglie con un sorriso, che si ingigantisce ancora di più quando gli diciamo che siamo italiane e ci vorremmo fermare per la messa. In totale siamo in quattro seduti sulle panche: noi e i suoi due nipoti che sono andati a trovarlo. Poco più tardi arrivano anche due turisti polacchi, un americano e i fedeli della sua parrocchia: una signora croata, un signore greco e una turca convertita. Si celebra la Santissima Trinità, ma sembra quasi la Pentecoste per la varietà di popoli, lingue e storie che si vengono a incontrare.

La città degli odori e dei sapori. Ovvero: il Bazar delle Spezie
Una scritta in spagnolo attira la mia attenzione. L’attira così tanto che ora non mi ricordo più nemmeno cosa c’era scritto. Ma questo perché veniamo subito catturate dalla parlantina di Sinan. Ha 25 anni e conosce un sacco di lingue, imparate al Bazar: italiano un poco, inglese, spagnolo, ovviamente turco, arabo e chissà cos’altro. Al Bazar ha imparato anche a raccontare un sacco di storie e a comportarsi come un dongiovanni con tutte le ragazze. Ci fa assaggiare il tè turco, lo zafferano, quello vero, che costa un botto al grammo e se lo prendi con un poco di acqua calda ti fa diventare tutta la lingua gialla e fa bene per la memoria, lucum di tutti i tipi, spezie per cucinare. Compriamo tutto quanto, e io mi porterò a casa il miglior curry che abbia mai assaggiato in vita mia.

Il sorriso di Istanbul
Il miglior ristorante che abbiamo provato in tutto il nostro viaggio si chiama Hamdi et Locantasi (è impossibile trovare un tavolo senza aver prenotato). I tavoli sono disposti su una meravigliosa terrazza che domina il ponte di Galata, con centinaia di camerieri gentilissimi pronti a servirti i migliori kebap e prelibatezze turche a un prezzo veramente accessibile. Eliana ed io scendiamo dal tram e ci ritroviamo a vagare di sera nei pressi del bazar delle spezie. Non c’è quasi nessuno a cui chiedere, e nei pochi negozi aperti ci danno indicazioni che non riusciamo a capire bene. Finalmente una giovane coppia turca: lei sta mangiando un grosso cono gelato, gli angoli della bocca sporchi di cioccolato. Con il nostro turco elementare chiediamo dove sta il ristorante “Hamdi at Locatasi nerede?” e loro, che non parlano una parola di inglese, deviano dal loro percorso, e iniziano a cercare il ristorante assieme noi, chiedendo alla gente turca e portandoci fino all’ingresso. La ragazza ha un sorriso bellissimo. Non mi ricordo il suo nome, e in fondo non riusciamo a dirci quasi nulla, ma il suo è il più bel sorriso di Istanbul che ho visto. E che più rimane impresso nella mia mente.

Dervish
Quella a cui assistiamo è una vera sema, la cerimonia attraverso cui i dervisci raggiungono l’estasi, e quindi una vicinanza maggiore con il dio. Alla sema partecipa quasi tutta la comunità, composta in gran parte da uomini. C’è una sala grande dove ballano i dervisci, e nella sala adiacente si sistemano gli uomini che suonano e cantano pregando. Al piano di sopra, dietro le grate, stanno le donne, velate. In un recinto a parte, divisi uomini e donne, stanno i pochissimi turisti che assistono alla cerimonia. Tutti amici di amici, o conoscenti. L’atmosfera e la cerimonia mi fanno molta impressione. Cantano, pregano, e poi entrano i dervisci. Tra questi, un ragazzino di 14 anni, alla sua prima esibizione pubblica, per cui ha provato 3 anni, prima di essere pronto.

In aereo. Ritorno a casa con una grande quantità di bigliettini, carte, ricordi, numeri di telefono e persone conosciute.
Istanbul è una città che ti resta nel cuore. I suoi abitanti ti restano nel cuore. Perché ogni volto che incontri qualcuno ti ferma, ti colpisce e instaura da subito una relazione particolare, a suo modo profonda.

Il mio diario si concludeva con il proposito di ritornare, ripetuto per due volte.
Ancora non ci sono tornata a Instanbul, ma adesso è tempo di mettere giù il piano ferie.

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